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SUPERARE I RISCHI DELLA CULTURA DEI MURI

pace ucrainaMentre il bollettino del Consiglio di scienza e sicurezza degli scienziati atomici imposta ancora una volta l’orologio del giudizio universale a 90 secondi dalla mezzanotte “perché l’umanità continua ad affrontare un livello di pericolo senza precedenti”, vogliamo richiamare la continua esortazione di papa Francesco a combattere contro “la tentazione di fare una cultura dei muri. 
Abbiamo per questo incontrato Arianna Colombari, 20 anni, studentessa di scienze ambientali e protezione civile. Prima di cominciare l’università, dallo scorso aprile e fino a luglio, dopo un tempo di formazione, ha deciso di partire dalla Brianza, dove vive con i genitori e le sorelle, per stare accanto alle vittime della guerra in Ucraina
La sua storia ci colpisce, perché pur essendo come tutti i giovani, attiva sul web e immersa nell’impresa di discernere fra i dati e contenuti, Arianna ha voluto toccare con mano la verità. 
Cosa hai fatto il giorno di Pasqua 2023?
Sono partita, supportata dall’Operazione Colomba (nata per denunciare le violenze e le violazioni dei diritti umani) con la convinzione di voler stare con gli ucraini, per condividere il loro dramma, convinta che la loro vita non vale meno della mia.
Arianna, cosa hai visto della guerra?
Dopo un anno di guerra le persone sono distrutte e vivono costantemente sotto le pressioni della paura ma senza la volontà di lasciare le case. Ho vissuto con loro, prima nel sotterraneo di una Chiesa evangelica a Mykolaïv e poi a Cherson. Ero fra i molti anziani, con i giovani che si mettono a servizio. Condividevo il tempo e supportavo la gente  con la distribuzione di viveri, dell’acqua, e dei beni di prima necessità. 
Perché hai voluto andare in Ucraina?
Ho sempre avuto passione per il mondo e la missione. Ho sempre voluto conoscere i bisogni delle persone e la realtà. Mi piace il servizio e volevo fare un’esperienza di valore che mi appartenesse. Ho scelto l’Ucraina perché la gente qui è traumatizzata. In questa assurdità io ero felice.
Cosa hai visto con i tuoi occhi? 
Delle vittime mi rimane il fatto che hanno la guerra dentro, un trauma che non guarirà con la fine degli attacchi. Saranno per sempre traumatizzati. Anche solo i rumori assordanti delle bombe fanno impressione. Ora, io stessa, quando sento rumori in Italia mi dico che non è nulla. Loro continuano a vivere lì, con una forza che non hanno scelto e che gli ha bloccato la vita da un momento all’altro. 
E ora cosa speri per loro?
Mi aspetto una concreta condivisione di una fraternità che sia onesta. Vanno condivise le storie difficili del mondo ma anche la vita: i pensieri, le cose. Vorrei una condivisone sincera, sia nei gesti che nelle parole. Le vittime della guerra non la vogliono. Rischiano di perdere la vita ogni momento ma loro vivono li e cercano di essere solidali con gli altri: portano donazioni a chi è solo e isolato e sanno di rischiare. Ma nonostante ci siano droni minacciosi sulle loro teste, cercano di vivere il momento con umanità. Sistemano le macerie.
Cosa speri per il mondo?
Ho sentito dire da loro «La preghiera non basta perché mi sento impotente» dicono, «imbraccio le armi». Ci vuole qualcuno accanto a loro perché possano vivere la pace e mantengano, nella guerra, il coraggio di rifiutarla. Mi sentivo nel posto giusto e spero di tornare ad essere con loro. Io nutro la speranza che nessuno si senta solo perché concretamente sperimenta di non esserlo. Insieme con loro mi piace testimoniare (anche dove si affievolisce la speranza, perché non si vede una fine) che la soluzione non è arruolarsi. 
a cura di Silvia Meroni
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