Sara. "La benedirò e diventerà nazioni" - recensione di don Matteo Crimella
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«Chi non conosce Abramo?» (5). Con questa domanda si apre il nuovo, bellissimo libro di Laura Invernizzi, appartenente all’Istituto delle Ausiliarie Diocesane di Milano, docente di esegesi dell’Antico Testamento presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e professoressa di introduzione alla teologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Alla domanda, tuttavia, si affianca immediatamente una constatazione: «Forse non sempre, però, si ricorda che una donna cammina accanto ad Abramo e che se Abramo è chiamato a diventare “padre di una moltitudine” (Genesi 17,5), di lei, di Sara, si dice che “diventerà nazioni” e che “re di popoli nasceranno da lei” (Genesi 17,16)» (5). Laura Invernizzi prende il suo lettore per mano, facendogli gustare il racconto biblico così come si presenta e mostrando, passo dopo passo, quale figura di Sara emerga. Il volume può essere gustato autonomamente, ma diventa ancora più prezioso se lo si pone accanto al testo biblico, letto e riletto, così da assaporare la bellezza e la profondità della narrazione di Genesi.
Cerchiamo anzitutto di ripercorrerlo, dando spesso voce all’autrice.
La vicenda di Sara inizia prima che il Signore chiami Abram, nel momento in cui questa donna diventa la sposa del grande patriarca. Afferma Genesi: «E Sarài divenne sterile e non aveva figli» (11,30). Come giustamente nota l’autrice, la Bibbia non dice che “Sarài era sterile” ma che ella «divenne sterile». La donna cioè, non era sterile da sempre, ma lo divenne in conseguenza al matrimonio con Abram, al suo «essere presa» (Gen 11,29) da parte di Abram. Osserva la biblista: «Abbandonare padre e madre, non significa, ovviamente, venir meno alla pietà filiale, ma imparare a relazionarsi con una donna che non sia né la propria madre, né la propria sorella, accettando la fatica di conoscerla, senza presumere di sapere chi sia, e di farsi conoscere, senza aspettarsi di essere già conosciuto: solo abbandonando il proprio essere figlio e fratello, l’uomo potrà trovare nella moglie una partner con cui relazionarsi alla pari e non rischiare di cercare in lei una madre o una sorella, relegandola, così, in relazioni che sono sterili» (17-18). Il nome Sarài significa «i miei prìncipi» e mette bene in evidenza la dipendenza di questa donna dai suoi “uomini” (Abram, il marito e Terach, il suocero), cioè la sua sofferenza, silenziosa e prolungata. È l’inizio della sua storia.
«Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre”» (Gen 12,1). Nel momento in cui la Parola di Dio risuona nella vita del patriarca, si realizza una nuova partenza. Egli aveva già lasciato la propria terra natale, Ur, ed era già partito con il padre, ma questa chiamata a rimettersi in cammino chiede ad Abram di assumere personalmente la scelta della direzione da seguire. E Sarài? La moglie è, ancora una volta, presenza muta e silente, soggetta alle decisioni altrui. Sarài «è presa» da Abram, il quale però «prende» anche Lot. Insieme camminano, lasciando la vita sterile per andare verso il compimento della promessa di Dio.
Un episodio davvero enigmatico è quello in cui Abram ordina alla moglie: «Di’, suvvia, che tu sei mia sorella» (Gen 12,13). Il patriarca, infatti, teme che la bellezza della sposa possa dare alla testa degli egiziani, al punto di rischiare la propria vita. Spintosi in Egitto a causa della carestia, Abram non assume il rischio di essere quello che è diventato col matrimonio, cioè il marito di Sarài. Forse Abram intende sbarazzarsi della moglie sterile e dunque prendere un’altra sposa? La vicenda si complica, come il racconto genesiaco narra, ma al termine, il faraone – che in effetti si era invaghito di Sarài – la restituisce ad Abram dicendo: «Prendila e vattene» (Gen 12,19). Risuonano qui le parole dette da Dio all’inizio della vicenda. «Il faraone diventa messaggero di Dio ricordando ad Abram che deve camminare con Sarài, e Abram “è rimesso in pista”, anzi, è la coppia a essere messa in cammino: il Signore ha attestato che Sarài, che non era stata menzionata nella chiamata iniziale, vi era “come dissimulata”» (44-45). In altre parole, Dio è intervenuto servendosi di personaggi umani. Ma Abram e Sarài avranno capito? Il tempo che segue questo misterioso episodio è ancora un tempo di silenzio: Abramo cammina e Sarài accanto a lui, senza che la si veda e la si senta.
Passano dieci anni, dieci anni di vuoto, con un bilancio negativo, visto che la coppia non ha avuto figli. Sarài propone una soluzione tutta umana per un problema che ha riconosciuto essere di origine divina; dice infatti al marito: «Ecco, suvvia, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti, suvvia, alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli» (Gen 16,2). Annota Laura Invernizzi: «Il desiderio che Sarài esprime è formulato in maniera ambigua, perché “forse da lei potrò avere figli” non è l’unica traduzione possibile. Il verbo bānāh che vi ricorre significa in prima istanza “costruire” ed è usato in forma passiva: Sarài parla, quindi, del suo desiderio di “essere edificata, costruita”, cioè di “esistere” come donna, di essere considerata, di vivere e di continuare a vivere» (64-65). Ecco l’ambiguità del desiderio di Sarài: desidera “essere” ma vede nell’”avere” un figlio la realizzazione di questo desiderio, identificando le due cose. Abram cede, si allinea, fa un passo indietro: invece di fidarsi della promessa divina percorre una scorciatoia molto umana. «Cedendo al suo invito Abram non aiuta Sarài a liberarsi dalla sua paura di non essere considerata e non l’aiuta ad “essere costruita” nella relazione con lui, perché non si comporta come marito che veda in lei la moglie» (66). Sarài passa il testimone ad Agar. Per il personaggio pare essere davvero la fine: non solo è senza figli, ma ora pare non essere più nemmeno moglie.
Trascorrono altri tredici anni. Sono molti e tutti senza che nulla accada. D’improvviso una Parola divina, una promessa: non riguarda solo Abramo e la sua posterità, numerosa, ma pure Sarài: «Quanto a Sarài tua moglie, non la chiamerai più Sarài, perché Sara è il suo nome! Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni, e re di popoli nasceranno da lei» (Gen 17,15-16). Dio rivela ad Abramo il vero nome della moglie, Sara: «se Abraham accetterà che non sia “sua” la donna che ha scelto, questa donna potrà davvero essere sua moglie: non sarà più Sarài, “i miei prìncipi”, ma Sara, “principessa”, e come partnerfeconda e madre avrà un ruolo nell’alleanza tra il Signore e Abraham» (78). La benedizione non riguarda solo il patriarca, ma pure la sua sposa, in una completa reciprocità.
Il tempo passato ha condotto Abraham ai cento anni e Sara ai novanta. Come sarà mai possibile che questa donna dia un figlio al patriarca? Abraham ride della promessa di Dio (Gen 17,17). Per tutta risposta Dio riderà del patriarca e il bambino che nascerà si chiamerà Isacco, cioè “egli ride”. La reazione di Abramo è reduplicata da Sara: «Allora Sara rise dentro di sé e disse: “Dopo essere stata dismessa, dovrei provare piacere, mentre il mio signore è vecchio!”» (Gen 18,12). La donna esprime qui il proprio punto di vista femminile, forse un po’ crudo, che parte dalla propria corporeità: si sente anziana, consumata, consulta come un vestito ormai logoro e ride. «Ride di piacere per la prospettiva di rivincita che le si apre davanti? O ride incredula per l’assurdità?» (88). Moglie e marito sono pienamente allineati: sia nell’incredulità, come pure nel cammino di fede davanti ad una promessa che oltrepassa le possibilità umane. Isacco sarà il sorriso che Dio rivolgerà loro.
La nascita del figlio trasforma Sara. Sintetizza mirabilmente l’autrice: «Sara non è più la sterile che non ha generato e che è disposta a lasciarsi definire “sorella” (Genesi12,10-20; 20,5); non è più la donna astiosa e pungente, arrabbiata con Dio e con il mondo, che si vede esclusa dalla vita e si arrabatta per sentirsi donna, usando gli altri e creando con le sue stesse mani i presupposti della propria infelicità (Genesi16,1-6); non è più nemmeno l’anziana delusa e disincantata, che si sente ormai consumata, consunta e dismessa come un vestito vecchio e logoro e che ride quando la promessa tocca il limite della sua impalpabile fede (Genesi18,9-15). Qui Sara è un’altra! L’intervento di Dio ne ha fatto esplodere potenzialità generative: come il suo corpo è reso capace di concepire una vita, così il suo atteggiamento e le sue parole diventano capaci di fare spazio e di abbracciare l’altro. Il discorso di Sara, che ne manifesta il cuore, è accogliente e carico di tenerezza verso Abraham» (105).
Sara muore a centoventisette anni (Gen 31,1). «Si tratta di una vita piena: ai centoventi anni che il Signore ha fissato come durata massima per la vita dell’uomo (Genesi 6,3), ne sono aggiunti altri sette, che evocano una pienezza sovrabbondante» (116).
Che dire di questo percorso? La scrittura di Laura Invernizzi è piana, chiarissima, senza ampollosità, lontana da tecnicismi, profondamente informata e sapiente, così che il lettore scorrendo queste pagine entra a poco a poco nel sublime racconto della Genesi. La narrazione risplende nella sua bellezza e incrocia la vita di ogni persona interpellata dalla Parola di Dio.
Fra i molti spunti che emergono ne sottolineiamo solo un paio. Anzitutto l’autrice insiste sulla “cura omeopatica” cui è sottoposta Sara. I tempi della realizzazione della promessa di Dio sono lunghi e gli anni trascorsi nel silenzio e nel nascondimento sono numerosi. Se gli umani sono colti dall’ansia del tempo che passa, quello stesso tempo vede il compiersi del progetto di Dio, secondo una logica molto singolare: ciò che tarda avverrà! Inoltre la vicenda di Sara vede l’intreccio fra il piano di Dio e la libertà umana, con momenti depressivi, slanci entusiasti, attese prolungate, manifestazioni sorprendenti. A ben pensarci è la storia di ogni persona, illuminata dal racconto biblico a proposito di Sara, messo così ben in rilievo dall’acuto commento di Laura Invernizzi.
Buona lettura!
don Matteo Crimella
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