n. 41: Nuova Evangelizzazione e Chiesa particolare

PROPOSIZIONE 41: NUOVA EVANGELIZZAZIONE E CHIESA PARTICOLARE
 
La Chiesa particolare, diretta dal Vescovo, aiutato da sacerdoti e diaconi, con la collaborazione di persone consacrate e laici, è  l’oggetto della nuova evangelizzazione. Lo è perché in ogni luogo la Chiesa particolare è la manifestazione concreta della Chiesa di Cristo e, come tale, inizia coordina e realizza le azioni pastorali attraverso le quali la nuova evangelizzazione viene implementata.
Nella Chiesa risuona la chiamata alla santità, diretta a tutti i battezzati, invitati a seguire il Cristo e a rivolgersi con amore e buona volontà verso tutti gli uomini, al fine di discernere l’azione dello Spirito Santo in loro: “Come vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34-35). Per le prime comunità cristiane, la comunione era un elemento costitutivo della vita di fede e necessaria per l’evangelizzazione: avevano un solo cuore e spirito. La Chiesa è comunione, vale a dire, la Chiesa è la famiglia di Dio.
La Chiesa permette a ciascuno dei suoi membri di essere consapevoli della loro responsabilità di essere come il lievito nella pasta. In questo modo, “la fede che opera per mezzo della carità” (Gal 5,6) diventerà una testimonianza contagiosa per il mondo in tutte le sue dimensioni, offrendo ad ogni persona la possibilità di incontrare Cristo e di diventare a sua volta evangelizzatore.
E’ auspicabile che ogni Chiesa particolare, qualunque siano le difficoltà, sviluppi il senso della missione tra i suoi fedeli  cooperando con le altre Chiese particolari.
 
“Costituirono quindi per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo aver pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto” (At 14,23). Gli apostoli Paolo e Barnaba pongono i primi passi delle Chiese sotto la guida di un collegio di anziani, loro collaboratori. Vedremo i tratti che deve assumere la parrocchia nel rispondere all’esigenza della Nuova Evangelizzazione nella proposizione 44, qui va ricordato che la parrocchia si qualifica dal punto di vista ecclesiale non per se stessa, ma in riferimento alla Chiesa particolare, di cui costituisce un’articolazione.
E’ la Diocesi ad assicurare il rapporto del Vangelo e della Chiesa con il luogo, con le dimore degli uomini.  La Chiesa particolare è fondata dalla successione apostolica da cui scaturisce la certezza della fede annunciata e, nella comunione di tutti i suoi membri sotto la guida del Vescovo, è dato il mandato di annunciare il Vangelo. La parrocchia, che vive nella Diocesi, non ne ha la medesima necessità teologica, ma è attraverso di essa che la Diocesi esprime la propria dimensione locale. Pertanto, la parrocchia è definita correttamente come “la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie” (Chl, 26).
Agli inizi, la Chiesa si edificò attorno alla cattedra del vescovo e con l’espandersi delle comunità si moltiplicarono le Diocesi. Quando poi il cristianesimo si diffuse nei villaggi delle campagne, quelle porzioni del popolo di Dio furono affidate ai presbiteri. La Chiesa potè così essere vicina alle dimore della gente, senza che venisse intaccata l’unità della Diocesi attorno al Vescovo e all’unico presbiterio con lui.
La parrocchia è dunque una scelta storica della Chiesa, una scelta pastorale, ma non è una pura circoscrizione amministrativa o funzionale della Diocesi: essa è la forma storica privilegiata della localizzazione della Chiesa particolare.
 
Più che di “parrocchia” dovremmo parlare di “parrocchie”: la parrocchia infatti non è mai una realtà a sé, ed è impossibile pensarla se non nella comunione della Chiesa particolare. E’ fondamentale valorizzare i legami che esprimono il riferimento al Vescovo e l’appartenenza alla Diocesi. E’ in gioco l’inserimento di ogni parrocchia nella pastorale diocesana. Alla base di tutto sta la coscienza che i parroci e tutti i sacerdoti devono avere di far parte dell’unico presbiterio della Diocesi e quindi il sentirsi responsabili con il Vescovo di tutta la Chiesa particolare, rifuggendo da autonomie e particolarismi. 
In questo senso ricordo l’indicazione del card. Tettamanzi nella lettera pastorale La Chiesa di Antiochia regola pastorale della Chiesa di Milano – Un anno di riposo in Dio – 2009-2010: “ … dovremmo vedere i nostri incarichi personali, qualunque essi siano, come espressione particolare di una sollecitudine pastorale comune e condivisa che ha come “soggetto” l’intero presbiterio … se uno è parroco, cappellano, responsabile di ufficio di curia, ecc. lo è a nome del Vescovo e dell’intero presbiterio. Se assumiamo questa prospettiva ci sentiremo meno isolati  e meno tentati dai personalismi del nostro lavoro pastorale … esiga comunque una chiarezza e un ordine di compiti, di ruoli e di responsabilità. Questa è un’esigenza umana da tutti avvertita e da rispettarsi, ma è anche una necessità per una comunione che voglia essere ordinata e che non debba soffocare ma valorizzare i carismi e i ministeri personali per l’utilità comune” (pp. 55-56).
La stessa prospettiva di effettiva comunione è chiesta a religiosi e religiose, ai laici appartenenti alle varie aggregazioni.
 

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